17/06/2017

 

COMMENTO AL VANGELO

 IV DOMENICA  DOPO PENTECOSTE –

 MT  22,1-14

Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale?

Ileana Mortari – rito ambrosiano

La parabola della lettura odierna è detta “della grande cena”, perché ci presenta un sontuoso banchetto che un re ha imbandito per le nozze di suo figlio e a cui ha invitato molte persone ragguardevoli. Ma queste, nonostante due ripetuti e insistenti inviti, non vogliono andare, anzi alcuni se la prendono con gli stessi messaggeri insultandoli e arrivando persino ad ucciderli! Il re allora punisce molto pesantemente quegli assassini e manda di nuovo dei servi ad invitare chiunque, “buoni e cattivi”, espressione semitica per dire: proprio tutti. Così la sala finalmente si riempie di commensali; ma il re vede uno privo dell’abito nuziale e, non avendone avute spiegazioni, ordina ai suoi servi di legarlo mani e piedi e gettarlo fuori nelle tenebre.

Com’è noto, la parabola è un racconto fittizio, che non va interpretato in ogni suo particolare, ma di cui va colta la cosiddetta “punta”, il centro verso cui tutto converge; nel testo in esame sono presenti due parabole (una più lunga e una molto breve), in cui il punto focale è rispettivamente: il contrasto tra chi rifiuta e chi accoglie l’invito del re; la punizione di chi si è presentato al banchetto in veste inadeguata.

Vediamo ora di spiegare le due parabole. Il tema del banchetto e delle nozze è frequentissimo nell’Antico Testamento per indicare il regno di Dio: ne è un chiaro esempio il brano di Isaia 25, 6-10a; lo dice esplicitamente Gesù nell’introdurre i due racconti: “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze…” (v.2). Il regno dei cieli è poi strettamente collegato alla dimensione della festa e della gioia: “rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza”, dice ancora Isaia al v.9; e il banchetto nuziale su cui verte la parabola porta sempre con sé l’idea di un grande gioioso festeggiamento per quella bellissima realtà che è l’amore di due sposi.

Allora fuor di metafora il discorso è chiaro: il re è Dio che vuole la partecipazione più ampia possibile, anzi la partecipazione di tutta l’umanità, alla festa e alla gioia del suo regno, alla comunione con Lui e con il Figlio Gesù.

Ma molti, anzi tutti i primi invitati, rifiutano: chi sono? Nel contesto storico in cui viene narrata la parabola (gli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, dove avviene lo scontro con le autorità giudaiche che lo porterà alla morte), questi primi invitati sono i membri del popolo eletto, Israele, che ha rifiutato dapprima i profeti (i primi servi inviati dal re), giungendo addirittura ad ucciderne alcuni! e poi anche la predicazione e l’annuncio del Nazareno (adombrato nel secondo invio di messaggeri), rivolto a tutti senza distinzione: piccoli, poveri, peccatori, ignoranti, gente esclusa dalla comunità religiosa ebraica.

Il rifiuto però non è senza conseguenze: nella parabola si parla di un re che manda a morte gli assassini e addirittura incendia la loro città (è qui evidente l’allusione alla terribile distruzione di Gerusalemme e del tempio ad opera dei Romani nel 70 d.Cr.).

E’ forse una punizione eccessiva? No, se pensiamo alla natura del grandissimo dono che Dio fa agli uomini chiamandoli al suo regno, cioè alla comunione con sé, e al senso della punizione nella Bibbia.

Come scrive l’emerito card. Martini nel suo bel libro “Perché Gesù parlava in parabole?” (p.97), “Gesù vuole ribadire che c’è un assoluto primato di Dio rispetto alla storia, all’uomo, alle situazioni, ai beni…….Dio è il Bene supremo, e questo rende inevitabile il giudizio, dal momento che non è un bene facoltativo, ma assoluto e il suo contrario è il non bene dell’uomo. L’offerta di questo bene è talmente pressante (lo stesso essere di Dio che si rivela) da porre l’uomo che lo respinge nello stato di dannazione, nella miseria esistenziale più profonda…….La mia esistenza, con i suoi talenti, è una possibilità assolutamente seria che Dio mi offre per essere nel regno, nella pienezza della comunione con Lui e con gli altri; oppure diventerà rifiuto di questa pienezza.”

Dunque, come sempre nella Bibbia, la “punizione” non è che l’esplicitazione della situazione totalmente negativa in cui si pone chi rifiuta il Dono per eccellenza, che è la vita e l’amore di Dio.

Quando, negli anni 80 d.Cr., il redattore del primo vangelo (“secondo Matteo”), si trovò di fronte a questo testo (tramandato dapprima oralmente e poi per iscritto), la comunità cristiana, che al contrario degli Ebrei aveva accolto l’invito di Gesù, aveva ormai alle spalle diversi decenni di storia. Essa si mostrava troppo fiduciosa in se stessa, illudendosi di possedere una sorta di “cambiale” per il regno; a causa di questa falsa sicurezza l’impegno di vita era diminuito e serpeggiava un certo lassismo.

L’evangelista decise allora di attualizzare la parabola aggiungendo il secondo racconto relativo all’abito nuziale, che riflette l’uso del tempo di fornire una veste adeguata al banchetto ad invitati che arrivavano da lunghi viaggi, impolverati e in disordine; l’uomo trovato senza di essa evidentemente non l’ha voluta e si è presentato in modo non consono alla situazione.

Il simbolismo è facilmente intuibile, specie nel contesto di Matteo che tanta importanza dà alle opere: la veste rappresenta quell’impegno concreto di vita, quei “frutti” che derivano da una fede autenticamente e praticamente vissuta e che invece erano sempre più scarsi nella comunità matteana.

Non occorrono altre parole per invitare ciascuno di noi a porsi di fronte al richiamo di Gesù con l’onestà intellettuale di chi scruta sinceramente se stesso per vedere se e quanto si trovi nella condizione del commensale indegno del banchetto.

Tratto da Qumran2.net