25/03/2018

DOMENICA DELLE PALME – Signore, in te mi rifugio    Rito Ambrosiano B

COMMENTO ALLE LETTURE DOMENICALI

A cura di don ANGELO CASATI

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DAL LIBRO  : “I SALMI ”  DI   D.M- TUROLDO  e G-  RAVASI

SALMO 104 (105)vv. 2-4-5

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Don Angelo Casati:

Più forte della morte, il profumo

So di violare. Di violare il racconto che nella nostra liturgia fa da soglia, soglia e fessura, verso i giorni del triduo di Pasqua, So di violare perché, come ognuno di voi si è augurato, noi vorremmo staccarci dai personaggi che, nel racconto della cena di Betania, sono intorno a Gesù e non capiscono. Capisce l’amica, ha un nome Maria. E non dice una parola.

Quasi a suggerire che le parole non sono la prova che abbiamo capito, che abbiamo colto il mistero di una persona. Spesso sono i silenzi, colmati dagli occhi. E dal profumo. Voi me lo insegnate che profumo sono i gesti. Più di una moltitudine di parole. I discepoli parlano e non capiscono, anche se potrebbero vantare una lunga condivisione di ore e di cammini con il loro Maestro. Si può celebrare la Pasqua e non capire. I vangeli non hanno reticenze al riguardo.

Le avremmo forse noi, se a noi toccasse scrivere un vangelo, a dire che i discepoli non capivano. I vangeli lo notano, con particolare insistenza, quando Gesù parla degli eventi verso cui la sua vita ormai è incamminata: una sorte molto simile a quella del servo sofferente di cui abbiamo letto oggi nel rotolo di Isaia, considerato un reietto da Dio, percosso e umiliato, trafitto. Ma è scritto che, dopo il suo tormento, vedrà la luce.

E’ alluso un passaggio, una pasqua. I discepoli non capivano. E non è detto che noi capiamo. O che abbiamo capito tutto di questo mistero che ci si offre agli occhi e al cuore ogni anno, all’apparire del plenilunio di primavera. Un fatto di lune. Come le nascite e come le crescite. Legate alla lune. I discepoli non capivano, l’amica aveva capito. O se non aveva ancora capito del tutto, ci era andata vicina.

Perché a farci capire è il bene che vogliamo all’altro, all’altra. Mentre tutti facevano festa per Lazzaro che era tornato in vita, gli occhi di Maria andavano oltre. Che cosa avevano visto? Il suo profumo, oserei dire, era il segno di ciò che i suoi occhi avevano visto o intravisto. Avevano intravisto una contiguità tra la festa per il fratello e il prezzo pagato, l’ultimo prezzo, pagato era una morte violenta, quella del suo amico: proprio per quel fratello uscito dalla morte i capi dei sacerdoti e i farisei avevano deciso di uccidere il suo amico.

La festa per il fratello risuscitato paradossalmente era sposata al mistero della morte del suo amico. Che fosse vicina la sua morte glielo aveva letto negli occhi, perché gli occhi di coloro che amano leggono segni su un viso, di donna o di uomo. L’amico e maestro andava profumato, unto. Messia significa “unto”. Nella storia ad ungere re erano stati i profeti. Ecco l’inaudito! L’inaudito è che a ungere Gesù come Messia sia una donna.

E ancora più stupefacente che lo unga, profumandolo, in vigilia di morte. Era quello che non capivano i discepoli: che il Messia non fosse da cercare tra i vincenti, tra i rampanti, tra i dominanti, ma tra coloro che umanamente sono detti perdenti. Cercarlo e trovarlo, così come si cerca una pietra preziosa. E trovarlo confitto a una croce – lui l’aveva preannunciato – trovarlo appeso tra due malfattori.

Voleva profumarlo, ma non misurando il profumo. Con la dismisura. Perché quel suo amico e maestro era nel segno della dismisura. La donna aveva intuito, il tempo si era fatto breve. E Gesù riconosce il gesto e difende l’amica, reagendo alle critiche meschine di Giuda. Reagisce con forza: la lasciasse fare! E la smettesse di parlare di poveri lui, che davanti agli occhi aveva un povero in carne ed ossa, uno che stava per essere espropriato di tutto, espropriato della vita: “Lasciala fare perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura”.

Il profumo sembra legare nel vangelo le donne alla morte di Gesù. Le ritroveremo nel giorno della sua morte, prima a controllare come Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avessero deposto Gesù nel sepolcro e poi subito a casa a preparare aromi e profumi, e poi, il mattino di Pasqua, al sepolcro portando aromi e profumi. Sembra quasi di leggere nei loro profumi una sfida, una sfida alla morte, al cattivo odore della morte. Vince il profumo.

Gesù morendo e risorgendo ha profumato la terra, allontanando il cattivo odore della morte. Vince il profumo. “Lascia fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura!”. Perché il profumo? Ebbene a tutti noi viene spontaneo immaginare che di quel profumo smisurato, della tenerezza di cui era segno, di quelle mani che cospargevano i suoi piedi, di quei capelli che glieli asciugavano, Gesù avesse bisogno. Ecco Dio! Un Dio che ha bisogno. Come ognuno di noi!

Tutti bisognosi di attenzioni, di tenerezze. Maria di Betania se lo portava ora nei suoi capelli il profumo di puro nardo. Assai prezioso. Ne era come inondata. Ne era inondata la casa: “La casa” è scritto “si riempì dell’aroma di quel profumo”. Penso alla casa, alla casa dell’umanità, sconvolta dal cattivo odore della morte. Anche in questi giorni sconvolta dalla brutalità con cui si fa scempio della vita.

Penso ai visi dei bambini intossicati per gas in Siria – non me li stacco dagli occhi -. Sembra il trionfo della morte, del cattivo odore della morte: aprite giornali e telegiornali, sembra lo scialo della morte. Penso ai bambini di Siria, ma penso anche a fatti più vicini, lo scempio della morte. Abbiamo fatto la pace con la morte, con il cattivo odore della morte.

Ed è come se avvertissimo l’urgenza di un arrovesciamento, l’urgenza di inondare la terra di profumo, del profumo della tenerezza di cui è segno l’olio profumato di Maria di Betania: il profumo della tenerezza per l’altro, della dedizione per l’altro, della cura dell’altro, della passione per l’altro.

Tenerezza, dedizione, cura, passione di cui furono segno luminoso la vita e la morte di Gesù. Tenerezza, dedizione, cura e passione, come antidoto alla morte, come profumo di cui inondare la terra. Il profumo della Pasqua che andiamo a celebrare.

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DAL LIBRO  : “I SALMI ”  DI   D.M- TUROLDO  e G-  RAVASI

SALMO 104 (105) vv 2-4-5

Voce senza eco, nell’ infinito vuoto di una Presenza che è solo silenzio, o è perfino il nulla. Il nulla temuto, appena trafitto da uno scroscio di interrogativi senza mai risposta. Domande; per non dire dubbi che tu non sia, Signore. Eppure anche così sei pregato da qualcuno . e la fede dice : invocato così perfino da Cristo. Divenendo  lo stesso pregare segno che ci sei: che sei il TU necessario e inevitabile. D. M. TUROLDO

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“Il salmo più cupo del salterio, la più tenebrosa di tutte le lamentazioni, il più drammatico De profundis . il Cantico dei cantici de pessimismo  ….” queste ed altre definizioni coniate dagli esegeti esprimono l’impressione che si prova leggendo questa supplica estrema lanciata a Dio quando  i piedi dell’orante sembrano irrimediabilmente affondare nella tomba e l’orizzonte si è ormai fatto buio e silenzioso. Il grido estremo, simile a un SOS lanciato verso Dio , si svolge su due temi , il sepolcro (vv 2 e 8 ) e la solitudine totale (vv 9-19).  G. Ravasi