18/11/2018

I DOMENICA DI AVVENTO  La venuta del Signore      

Anno C – Rito Ambrosiano

Lettura del profeta Isaia 13, 4-11 – Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 5, 1-11°

Vangelo secondo Luca 21, 5-28

Commento alle letture di don Raffaello Ciccone

Lettura del profeta Isaia 13, 4-11

Al tempo del profeta Isaia (sec VIII) Babilonia non aveva un particolare significato militare ed era soggetta agli Assiri. Questo testo, di lotta e di sconfitta dei babilonesi, è molto più vicino agli avvenimenti del sec VI quando Babilonia fu distrutta da Ciro, persiano, nel 539 a.C. E’ perciò un testo scritto, probabilmente dal terzo Isaia che trasfigura tale avvenimento bellico in un castigo che il Signore infligge a Babilonia mentre Babilonia diventa l’immagine simbolo di ogni potere dispotico. E’ perciò una rilettura teologica di un avvenimento che aveva suscitato stupore in Israele.

Babilonia viene rappresentata come capitale di una grande potenza mondiale pagana, contraria a Dio e disumana. La sua fine dimostra che il Signore irrompe nella storia del mondo con il suo “giorno del Signore”, portando le situazioni catastrofiche della distruzione.

I vv.2-5 raccontano i preparativi della battaglia decisiva e i combattenti sono considerati i “consacrati”, truppe di Dio e giustizieri a sua volta: “Io ho dato un ordine ai miei consacrati; ho chiamato anche i miei prodi a strumento del mio sdegno, entusiasti della mia grandezza”. (v. 3).

Sono i soldati delle tribù di Israele che combattono la battaglia di Jhwh. Essi, prima di partecipare alla guerra, si sottoponevano a determinati riti e dovevano osservare norme specifiche, compresa l’astinenza sessuale (Deuteronomio 23,10-15). Il Signore, con il suo popolo purificato, combatte per liberare il mondo dalla tirannia e dall’oppressione.

Il racconto descrive l’angoscia e il terrore delle vittime, prima ancora che l’esercito del Signore si sia messo in marcia (vv.6-8). E’ l’espressione della paura e il riconoscimento che veramente Dio è grande e che solo lui è capace di potere e di potenza sulla terra.

Inizia quindi la narrazione del manifestarsi del Signore e le conseguenze catastrofiche che egli porta (vv. 9-16) ma il testo merita di essere letto per intero fino al v 22.

Con questa garanzia di presenza e di sostegno si apre il “giorno del Signore” che diventa, in questo caso, garanzia e liberazione per il popolo oppresso. Dio, che è il Signore dell’universo, interviene con tutta la sua potenza, arrivando a coinvolgere le stelle, il sole e la luna. Si descrive, attraverso immagini drammatiche, la rovina che realmente cade su questa città, orgogliosa e tiranna sui popoli. Il messaggio, che si vuole trasmettere, è di fiducia e di garanzia della presenza di Dio che non permette ai potenti di arrivare a compiere il male contro il suo popolo. E comunque, chi sviluppa violenza e opprime gli altri, è destinato al fallimento. Alla fine la potenza di Dio esplode nella liberazione.

Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 5, 1-11a

La collocazione di questo brano, nella liturgia della 1 domenica di Avvento, suggerisce ai credenti che vivono nella storia del mondo, di essere lievito e luce, sale e sapienza, presenza coraggiosa e generosa.

In una storia che si imbastardisce in male, violenza e dissoluzione, i cristiani sono chiamati alla novità, a non lasciarsi travolgere. Essi, che vivevano con gli stessi criteri e la stessa mentalità dei pagani, se ne possono rendere conto. Ora sono stati salvati dal Signore e immessi in una comunità e in una luce nuova: sono un corpo solo, la famiglia di Dio. Sono costituiti in unità con “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo… un solo Dio e Padre di tutti” (Ef 4,5-6), e quindi costituiscono l’unità del corpo di Cristo (4,1-16). Viene quindi logico il confronto tra il comportamento precedente alla conversione dei cristiani di Efeso e la nuova vita secondo Gesù (Ef4,17-24). Continuando questa riflessione, non ci si può dimenticare una particolare responsabilità nella stessa comunità che esprime, insieme, la ricchezza dei doni dello Spirito e la tensione verso una unità più profonda (4,25-32) Così il testo del cap. 4 è un buon antefatto che ci aiuta a cogliere il messaggio di oggi. Paolo, infatti, finisce, raccomandando la benignità, la misericordia “e perdonandovi a vicenda come anche Dio, in Cristo, ha perdonato a voi” (4,32).

Si capisce, allora, il successivo incoraggiamento che leggiamo oggi: “Fatevi, dunque, imitatori di Dio quali figli carissimi”. L’impegno suggerito è una scelta progressiva, “camminando nella carità”. Il camminare è un tipico linguaggio ebraico che traduce “un comportamento, un seguire una data norma”. E la misura, questa volta, non è solo legata alla fede nel perdono del Padre, ma si dimensiona sull’esempio concreto di Gesù che si è offerto al Padre per la nostra riconciliazione.

Paolo tiene ad esplicitare un comportamento coerente, specificando che “la prostituzione, ogni impurità, in genere, e l’avarizia” (5,3) vanno identificate come idolatria e quindi rifiuto del vero Dio: “Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – cioè nessun idolatra – ha in eredità il regno di Cristo e di Dio” (5,5). Comportarsi secondo queste scelte non costituisce solo sbaglio o cattivo comportamento, ma diventa una vera forma di culto idolatra perché è una totale offerta di se stessi al denaro o ad alcune creature, come se fossero Dio.

Ci sono anche preoccupazioni di correttezza nel linguaggio (“volgarità, insulsaggini e trivialità”) che non fa riferimento solo a buona educazione ma a”cose sconvenienti” che banalizzano e “sporcano” la realtà, riconducendola a “ogni specie di impurità”. L’alternativa è il rendere grazie.

Solo in questo modo ciascuno qualifica una presenza dignitosa e coerente che vive con semplicità e gratitudine la propria esistenza, sa accorgersi della presenza di Dio e dei suoi doni e accoglie ogni persona con stima e rispetto. Sul linguaggio Paolo si ferma molto poiché per ciascuno è questo il primo e il proprio modo di presentarsi, è lo svelamento di ciò che siamo, è l’immagine della propria interiorità. La correttezza, il significato delle parole, la discrezione (“neppure si parli tra di voi come dev’essere tra santi v.3″), la lealtà, la serietà di contenuto e la non vuotezza qualificano uno stile e una dignità non comune, riferimento alla somiglianza con Dio ed alla santità che è stata offerta perché “siete luce nel Signore”.

Il dono del battesimo ci ha resi “luce” (Col1,12: “Ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce”). Rigenerati dalla forza di Dio, Paolo ricorda che la vita deve giungere alla conclusione di operosità e concretezza. E parla di “frutti”: “Ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità…. le opere delle tenebre non danno frutto” (vv 9-11).
Anche Gesù concludeva con i frutti: “Fate dunque un frutto degno della conversione” (Mt 3,8).

“Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt3,10).

Lettura del Vangelo secondo Luca 21, 5-28

Gesù si rende conto di essere vicino alla morte e desidera offrire messaggi conclusivi con il suo insegnamento che si sviluppa collegandolo al tempio, al suo significato, alla sua consistenza: il tempio non è un mito, è solo un manufatto. Il tempio significa la presenza del Dio dell’Alleanza, ma la presenza va interiorizzata nel cuore degli uomini e donne nella storia poiché Dio abita nei suoi fedeli, prima in Cristo e poi in coloro che fanno la volontà di Dio. Essere portatori di Dio suppone reggere la fatica che i discepoli dovranno affrontare, se si qualificheranno come suoi seguaci nel tempo.

E infatti in questo testo Gesù entra nella lettura della realtà sacra e profana: il tempio e la città, la pace e la guerra, la speranza e la disperazione, il senso della fatica e la conclusione delle tragedie.

Gesù è invitato all’ammirazione del tempio che è splendido per le enormi pietre di calcare bianco squadrate, lunghe fino a 7 metri, le decorazioni, gli ex-voto, in particolare le viti d’oro che Erode, il Grande, aveva fatto collocare alle pareti del vestibolo, dalle quali pendevano grappoli della statura di un uomo e che i fedeli arricchiscono con le loro offerte, estendendone i tralci, le placche d’oro massiccio applicate alle pareti che rende impossibile fissare, di giorno, il tempio poiché splende con lo stesso splendore e fulgore del sole e bisogna abbassare lo sguardo.

Eppure tutto sarà distrutto.

La storia si presenta così, con crolli e devastazioni, con tragedie causate dagli uomini e causate della natura. “Verranno persone che vorranno travolgervi con la paura della prossimità della fine del mondo. Ma voi non seguiteli”. Quelli che circondano Gesù sono impressionati e pretendono di avere riferimenti e date. Ma Gesù si sottrae alla loro curiosità, indicando invece che Dio continua ad essere presente e che prepara un tempo nuovo che è il tempo del Regno.

Insieme con i drammi e le tragedie del mondo che rovina e si deforma crollando, c’è anche la persecuzione perché “siete miei discepoli”. Gesù annuncia che attorno ai suoi amici si farà il vuoto e ci saranno paura e tradimento. “Non ci si deve spaventare e neppure preoccuparsi di preparare una difesa”. Perfino i propri parenti diventeranno accusatori: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi” (v 16: il numero 4 richiama tutto l’orizzonte umano). Non serve costruire difese, inventarsi strategie, poiché questi sono strumenti e mezzi della mentalità non credente. Sta invece sorgendo un mondo nuovo, ove il Signore Gesù è sovrano, perfino della morte. Perciò “non terrorizzatevi” (v 9), qualunque cosa accada. “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (vv18-19). La perseveranza è la pazienza attiva, la sopportazione delle prove, la resistenza di fronte allo scoraggiamento e alla rinuncia.

La fine di Gerusalemme è descritta nella devastazione dei romani (70 d.C) come secoli prima fu devastata dai Babilonesi (596-586 a.C.). Tutto deve accadere poiché Gerusalemme è stata una città infedele alla parola dei profeti. Essa sarà calpestata dai pagani che inaugurano il tempo nuovo, “i tempi dei pagani” e i tempi della nuova conversione.

La riflessione successiva riprende e capovolge il racconto della creazione. Ora l’armonia della creazione è minacciata. Gli astri (i segni nel cielo), creati (Gn1 ) per indicare ordine, equilibrio e ritmo nel tempo e il mare, sotto il cielo, rinchiuso nelle sponde della terra come garanzia per l’umanità e limite, si sconvolgono. Non ci sarà più ordine né equilibrio nella natura che è messa a soqquadro nelle sue stagioni. Tutto questo porta scompiglio e la paura regna sovrana tra i popoli ignari. Eppure il Signore continua ad essere presente ed è il vincitore e il giudice giusto. Non bisogna avere paura poiché egli ci custodisce. Le catastrofi possono precedere, ma non sarà la fine. E ai cristiani viene svelata la gloria di Gesù perché non siano travolti dalla paura e, quindi, dalla morte. Ci viene infatti offerta la garanzia di una salvezza del mondo: incontreremo la risurrezione di Gesù e la restaurazione di tutto il creato nella sua bellezza, come luogo per un popolo di salvati: “Nuovi cieli e nuova terra” (Ap 21,1). Il futuro e la fine sono essenzialmente un incontro e una definitiva capacità di rapporti nuovi con il Signore. “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (v.28).

Tratto da Qumran2.net