COMMENTI AL VANGELO di: DON CLAUDIO DOGLIO

GV    10,11-18                             PAOLO FARINELLA prete

                                                        

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don Claudio Doglio Tratto da :“Conosciamo la Bibbia”- Il Vangelo secondo Giovanni

. «In verità, in verità vi dico: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”». Gesù sta parlando con questo gruppo di farisei che ha rimproverato di cecità spirituale; adesso allarga l’orizzonte e adopera una immagine metaforica: il recinto dove è raccolto il gregge e il ruolo del pastore che entra dalla porta per portare fuori le pecore.

Il ruolo del pastore “esemplare” -La prima parte del capitolo 10 è incentrata su questa figura molto rilevante: Gesù attribuisce a se stesso il titolo di pastore. È una qualità importante: nel mondo antico “pastore” è un titolo da re, in oriente e anche in occidente i re erano chiamati pastori dei popoli.  In Israele questa immagine regale del pastore ha finito però per essere attribuita a Dio: «il Signore è il mio pastore!». Quel salmo è emblematico di una fede che riconosce al Signore, e solo a lui, il titolo di pastore superando l’idea monarchica dei re terreni responsabili degli altri uomini. Dire però che il Signore è il pastore di Israele, che il popolo è il gregge del suo pascolo, è un dato tradizionale della fede biblica. Gesù opera in questo linguaggio un cambiamento sensibile: “Io sono il bel pastore”. In genere traduciamo “buon pastore”, ma nell’originale greco Giovanni adopera l’aggettivo kalós, non agathós, e quindi propriamente non sottolinea la bontà, quanto la bellezza, non però in senso estetico, piuttosto in senso esemplare.

La mano bella, mi insegnavano da piccolo, è la destra; il bambino per salutare si sbaglia e usa la sinistra. Gli si dice “non quella, la mano bella!”. Non è che sia più bella dell’altra, però l’aggettivo “bello” anche noi lo adoperiamo spesso in senso di eccellenza, di esemplarità. Gesù è il bel pastore non perché è un bell’uomo, ma perché è il pastore esemplare, quello bello, il modello su cui gli altri devono essere realizzati, è il prototipo, è il punto di partenza. L’uomo Gesù si qualifica come il pastore esemplare, attribuisce a sé un titolo divino, quindi una pretesa notevole; rientra in quel linguaggio provocatorio con cui Gesù non dice esplicitamente “sono Dio”, ma si qualifica come Dio e quindi rivela di avere una pretesa inaudita. Egli è il pastore come lo è Dio ed è il pastore esemplare perché è Dio, perché ha l’atteggiamento di Dio nei confronti del popolo ed è colui che passa attraverso la porta. Gli altri invece, quelli che prescindono da lui, sono ladri e briganti, vengono per prendere, per rubare, per distruggere. Egli, in quanto pastore è venuto per dare la vita, perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza.

“Io Sono” -Due affermazioni molto importanti troviamo in questo discorso con la consueta formula “Io sono”: è una espressione teoforica, cioè portatrice di Dio. “Io Sono” è il nome di Dio nell’Antico Testamento, quello che abitualmente nella tradizione ebraica viene pronunciato Adonai, il tetragramma sacro YHWH, che significa “Io Sono” e Gesù lo adopera in senso forte: “Io Sono”. Talvolta nel testo, se verificate, è scritto con le iniziali maiuscole, sia la I che la S, contro le regole della nostra grammatica italiana, proprio per aiutare il lettore a comprendere che l’espressione “Io Sono” non è semplicemente pronome e verbo, ma è il nome stesso di Dio. Con due immagini Gesù afferma il proprio ruolo unico: «Io sono la porta», «Io sono il pastore». Due immagini complementari. La porta è lo strumento di comunicazione e Gesù è colui che mette in comunicazione cielo e terra, Dio e gli uomini; la porta è lui, per arrivare a Dio bisogna passare attraverso di lui, Dio arriva agli uomini passando attraverso Gesù. I capi del popolo, che non vogliono passare attraverso Gesù, sono qualificati come ladri e briganti. Lui è il pastore esemplare perché porta nella storia lo stile stesso di Dio, è venuto per dare la vita perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza e conduce fuori le pecore dal recinto.

In greco il termine aulé, che è tradotto con recinto, indica anche l’aula, la corte, è termine che può indicare il tempio o il palazzo regale. Pensate nel nostro linguaggio: aulico vuol dire proprio un ambiente altolocato, è la corte regale. Portare fuori le pecore dall’aulé è immagine di esodo. Gesù sta tirando fuori le pecore di Israele dall’oppressione di una struttura religiosa negativa, sta

liberando il popolo dalla schiavitù della legge, sta facendo l’esodo e sta radunando un gregge universale. Dice infatti: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile. Anche quelle, dice, devo guidare»; in modo tale che l’umanità intera diventi un unico gregge, con un unico pastore che è il Cristo.

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Paolo Farinella, prete – Genova

La 4a domenica dopo Pasqua è comunemente conosciuta come la domenica del «Buon Pastore» perché vi domina questa figura descritta da Gv nel capitolo 10 del suo vangelo. Il testo greco parla di «Ho poimên ho kalòs» che alla lettera si traduce con «Il pastore bello», mentre le traduzioni parlano di «Buon pastore», sottolineando così le qualità morali. L’espressione «Il pastore bello» invece mette in evidenza un aspetto particolare: l’attitudine del pastore alla comunicazione, da cui nasce la comprensione e il dialogo. Il pastore non è solo «buono» perché comprensivo (aspetto morale), ma è «bello » perché si può «vedere». La conoscenza è anche «visione estetica» da contemplare. La bellezza attrae prima ancora di coinvolgere: prima di qualsiasi parola, c’è la visione perché vedere precede il parlare, come sperimentiamo quotidianamente nella nostra vita. In questo senso «buono» e «bello» sono sinonimi, ma non con significati identici perché la bontà nasce dalla volontà di adeguarsi, o, come dice San Tommaso, di «acquietarsi» in Dio sommo Bene, sommo Vero, sommo Uno, somma Esistenza. «Il pastore bello» è una dimensione dell’incarnazione del Lògos perché Dio si fa vedere «in mezzo» all’umanità e, provvisoriamente, nasconde la sua bellezza attraente nel volto umano dove noi dobbiamo cercarla, scoprirla, trovarla e ammirarla. Ogni celebrazione, specialmente l’Eucaristia, dove noi possiamo «vedere» la Parola che si fa Pane e Vino, è evento estetico perché deve esprimere l’armonia che unisce la singolare unità dell’umano e del divino che coesistono nella fragilità della visione partecipata e condivisa. Gesù si presenta con una formula forte di identità, che evoca sempre la maestà di Dio che si rivela sul Sinai a Mosè (cf Es 3,6): «Io-Sono» (ebr. ’anokì; gr. egō eimì). Usando questa formula «sacra», Gesù si pone sullo stesso piano del Dio della «rivelazione» del Sinai, assimilandosi così alla figura di «Dio-Pastore d’Israele» (Sal 80/79,2). Non è un profeta come Mosè o semplicemente il Messia, egli è il Dio dell’esodo che ora propone una «nuova alleanza» (Ger 31,31; cf Lc 22,20; 1Cor 11,25; 2Cor 3,6;Eb 8,8.13; 9,15; 12,24). L’espressione di autorivelazione «Io-Sono» (egô eimì) nel IV vangelo ricorre 10x in forma assoluta più altre 16x con immagini diverse, per un totale di 26x. Noi sappiamo che nella scienza ebraica dei numeri (ghematrìa) il numero 26 è il valore numerico del Nome Yhwh. L’autore del vangelo è ebreo e vuole darci una conclusione semplice: Gesù con l’espressione «Io-Sono» s’identifica con il Dio della rivelazione ebraica che è anche il motivo per cui deve morire: «Si è fatto figlio di Dio» (Gv 19,7).Una conferma ulteriore di questa interpretazione si ha in Gv 18,5-6, nel giardino del Getsèmani, quando i soldati del tempio insieme alla coorte vanno per arrestare Gesù. Gesù va loro incontro e chiede: «Chi cercate?». Le guardie del tempio, guidate da Giuda, rispondono «Gesù Nazareno!». Gesù non esita e si auto-presenta: «Io- Sono». L’evangelista annota che «appena disse “Io-Sono”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6) come Davide davanti alla visione dell’angelo del Signore (cf 1Cr 21,16), come i discepoli davanti a Gesù trasfigurato (cf Mt 17,6); come Tobi e Tobia davanti all’arcangelo Raffaele (cf Tb 12,16)come Giuda e i suoi fratelli davanti al tempio distrutto (cf 1Mac 4,40) o come si cade in ginocchio con la faccia a terra davanti al Nome o al Volto di Yhwh per non morire (cf Es 3,6; 33,20; Dt 18,16; 1Re 19,13).

«Il pastore bello» viene a spezzare l’impossibilità di «vedere Dio» perché lo rende accessibile, visibile, sperimentabile. E’ questo il senso dello squarciamento del velo del tempio «da cima a fondo» (Mc 15,38) che proteggeva Dio e il sommo sacerdote officiante dalla vista del popolo d’Israele: nel tempo dell’alleanza nuova, è abrogata ogni mediazione e Dio è visibile direttamente da Ebrei e Greci, senza differenza alcuna. «Il pastore bello » strappa «il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni» (Is 25,7) per manifestare il volto di Dio nella visione del Figlio. La vera identità della personalità di Gesù non appare a prima vista, ma occorre una certa consuetudine con lui per imparare a conoscerlo e condividerne i pensieri: la logica delle scelte non sono mai improntate al suo tornaconto personale, ma sono sempre proiettate fuori di sé verso gli altri. Gesù si auto-«manifesta» come porta, cioè come ingresso, apertura, accoglienza: «Io-Sono la porta delle pecore» (Gv 10,7) e come pastore (cf Gv 10,11) anzi, secondo il testo greco, come pastore bello: «Io-Sono il pastore bello – Egô eimì ho poimên ho kalòs».  Con gli stessi sentimenti di Mosè quando incontra per la prima volta il Dio dei suoi Padri che gli si rivela come «Io-Sono», togliamoci idealmente i calzari dai piedi della nostra superficialità e adoriamo la divina Shekinàh-Dimora che nei poveri segni della Parola, del Pane, del Vino e della Fraternità oggi manifesta a noi la «gloria/kabod» del suo Nome. Ascoltiamo questa rivelazione della personalità di Gesù nel cui volto vediamo il volto del Padre, entrando nel mistero della personalità di Gesù, con le parole del salmista (Sal 33/32,5-6): «Della bontà del Signore è piena la terra; la sua parola ha creato i cieli. Alleluia»