02/07/2017

IV domenica dopo Pentecoste –

Commento di don Raffaello Ciccone –

su    Lc 17, 26-30.33 – Gen 6,1-22; Gal 5,16-25;

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Luca. 17, 26-30. 33

Qualche versetto precedente (17,20) ci troviamo di fronte ad una domanda che i farisei pongono a Gesù: “Quando verrà il Regno di Dio?” A questa domanda Gesù risponde: “Il Regno di Dio non viene in modo che si possa osservare” (17,20-21). Si comincia così quella che si chiama la “Piccola Apocalisse (o piccola rivelazione) di Luca” (17,20-18,8), distinta dalla grande Apocalisse, sempre di Luca, riportata nel suo Vangelo più avanti (21,5-36).

Probabilmente Luca sta toccando un problema drammatico delle comunità cristiane che lui conosce poiché, da una parte, subiscono grandi difficoltà proprio a causa della fede e, dall’altra, hanno l’impressione che la loro attesa sia vana. Perciò la richiesta è drammatica: “Quando il Signore Gesù, che è nella gloria, concluderà questa nostra sofferenza?”

E se alla domanda dei farisei Gesù risponde: “Prima il Figlio dell’uomo deve partire molto ed essere rifiutato dagli uomini di questo tempo” (v 25), le comunità cristiane hanno sperimentato, insieme, drammaticamente la sofferenza di Gesù, ma anche stanno vivendo con certezza la sua risurrezione. Allora la domanda si sposta nel tempo ed è una domanda squisitamente cristiana. Non si tratta più di chiedersi se avverrà il Regno, ma ci si chiede “Quando avverrà?”.

Gesù porta due esempi, tratti dalla Scrittura, quella di Noè e quella di Lot. Egli non risponde al “quando”, ma sottolinea l’imprevedibilità e l’incapacità delle persone di vivere, con chiarezza, il tempo. La comunità cristiana, in particolare, non riesce a sopportare l’insignificanza del messaggio che deve portare agli altri. Mentre crede nella pienezza di grazia e di forza che si è sprigionata da Gesù risorto, non la verifica risolutiva. Perciò, pensano i cristiani e suggeriscono: “Dio deve essere drastico, con un luminoso giudizio sul bene, con una condanna del male. Questo è urgente- continuano a pensare- per poter concludere la fatica e la sofferenza della persecuzione, ma anche per raggiungere il vero trionfo e il significato della venuta di Gesù”.

Gesù, invece, mette l’accento, nei 2 episodi di Noè e di Lot, e sottolinea l’incapacità di saper leggere il tempo e poter provvedere alla sua conclusione. Al tempo di Noè e al tempo di Lot, tutti ritengono fondamentale vivere il senso della loro quotidianità e hanno creduto, così, di costruire la propria vita e la propria salvezza.

In particolare, al tempo di Noè, i contemporanei hanno esaurito la loro attenzione nel mangiare, nel bere, nello sposarsi; al tempo di Lot i concittadini hanno sviluppato una quotidianità, rivolgendo, in più, interesse nello sviluppo del commercio e nel costruire. Per sé, dal testo del Vangelo, non risulta che abbiano fatto qualcosa di male, svolgendo una vita, legata alla dimensione umana. E tuttavia sono stati travolti perché hanno esaurito le loro energie, semplicemente operando, e perdendo di vista il progetto di Dio. Anche per le generazioni future, la domanda non sarà tanto “Quando verrà il Regno?” quanto: “Come vivere la quotidianità, ancorandosi al fondamento della nostra vita con la parola di Gesù e accettando di vivere alla sua presenza?”.

C’è però una differenza fondamentale: la Comunità cristiana è stata incaricata della evangelizzazione, come opera indispensabile e avanti tutto: serve per aprire gli occhi alle persone oltre il quotidiano e ritrovare valori più profondi e più coerenti. La Comunità cristiana sa che l’imprevedibilità di questa tragedia (che potrebbe cadere su tutti all’improvviso) deve essere trasformata attraverso la propria testimonianza e il proprio coinvolgimento.

Si parla di acqua e di fuoco. Ma Gesù porta un’acqua nuova ed un fuoco nuovo: per chi è credente, Gesù offre l’acqua del battesimo e il fuoco dello Spirito.

Così il credente diventa segno di questa attesa per tutti, nella sua quotidianità, mentre esprime la fedeltà a Gesù, insieme con il coraggio di progetti e gli stili nuovi di vita.

La prospettiva della Chiesa, in questi tempi, continua a proporci la evangelizzazione. E’ una grande risposta al significato del tempo e della storia per sostenere gli uomini e le donne, nostri contemporanei, disorientati, spesso inconsapevoli e incoscienti, mentre la loro vita è preziosa gli occhi di Dio. Attraverso noi possono prendere coscienza che la loro vita diventa un dono da maturare, da offrire, da far crescere, da condividere.

Che cosa significa “scomunica” per la mafia gridata dal Papa Francesco in Calabria se non il lacerare dall’ambiguità di una Chiesa che corre il rischio di adattarsi, chiudendo gli occhi sul male che viene fatto verso l’umanità e verso i più poveri? Non è una vittoria, né una sfida, ma il coraggio di parlar chiaro e, quindi, di evitare che anche dentro di noi fruttifichi il senso del potere come dominio, della omertà, nell’approfittarsi, nell’accettare di avere una mentalità mafiosa.

 

 

Genesi 6, 1-22

Il racconto del diluvio fa riferimento ad una tradizione comune nel mondo Babilonese. Tuttavia l’autore biblico modifica e ritraduce i miti perché vuol dare un motivo plausibile alla diffusa certezza che siano vissuti nell’antichità famosi giganti. Si favoleggia di persone di corporatura straordinaria, nel mondo Medio orientale, nati dall’unione di donne con esseri sovrumani. Ovviamente il mondo Babilonese, parlando di “figli di Dio”, fa riferimento ai discendenti degli Dei che si sono uniti con le figlie degli uomini. Sempre nel mondo Babilonese queste unioni risultano avvenimenti eccezionali e gloriosi. Invece, nel linguaggio dell’autore biblico, queste tradizioni vengono riviste in una logica di deformazione morale poiché i figli di Dio possono essere discendenti di uomini giusti, provenienti da Adamo attraverso Set, e le figlie degli uomini possono essere considerate le discendenti dalla stirpe di Caino. Il testo dà atto che la nuova umanità si è rovinata poiché i giusti si sono lasciati sedurre dalla lussuria, e si sono dati non solo alla poligamia ma anche ad una specie di promiscuità sessuale e ad un libertinaggio sfrenato.

“Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni». (v 3). Dio si addolora che l’uomo non sappia mantenere una sua coerenza morale perché sa che questa corruzione porta all’infelicità. I 120 anni corrispondono ad una limitazione della vita dell’uomo, rispetto ai tempi della vita dei patriarchi, ed è il tempo di attesa della distruzione del mondo con il diluvio. L’autore biblico, che registra le tradizioni antiche purificandole da tutti gli elementi di altri Dei, ci mostra, tuttavia, un Dio misericordioso che mantiene il suo progetto di un mondo bello e grande e la promessa per una umanità fedele e coerente. Perciò salva un “resto”: così viene denominato, nella storia di Israele, il piccolo gruppo di giusti, risparmiati da Dio perché continuino il dialogo con il Signore e la discendenza dell’umanità. Questo riscatto non è che l’inizio del salvataggio di un “resto” salvato. Si salverà nella storia poiché Noè “cammina con Dio” ed accetta le scelte di umanità e di rispetto che il Signore ha offerto e non si confonde con la mentalità corrente, con la violenza e con la corruzione. Se, finora, gli anni della vita sono stati enormemente allargati, ora si riducono fino ai 120 anni (drastica riduzione rispetto agli antenati).

Nel frattempo Noè riceve il compito di costruire l’arca: è un natante, a forma di cassa, lunga circa 150 m, larga 25 m e alta 15 m (il cubito è 46 cm). L’autore biblico si preoccupa anche di rendere verosimile il manufatto perché Noè non può avere a disposizione colonne ma solo tronchi d’albero. Si limita perciò a tre piani, secondo la divisione del mondo: sotto terra, la terra e il cielo. L’arca non ha né prua, né poppa, né remi, né timone. E’ destinata a galleggiare e non ad arrivare ad una destinazione particolare. A ben vedere, tuttavia, ci si preoccupa di parlare di un tempio più che di una nave e Noè compie tutto quello che il Signore suggerisce. Gli elementi fondamentali di questo racconto sono l’arca (ripetuta 7 volte) il diluvio (v 17) e l’alleanza (v 18).

Le sorti del mondo dipendono dalla coerenza della umanità. Si riscopre un significato nuovo del suo compito. Se Adamo deve “coltivare e custodire il mondo”, la custodia passa anche attraverso la propria consapevolezza ed equilibrio morale.

Galati 5, 16-25

Quando prendiamo in mano la lettera ai Galati, sentiamo di poter respirare l’atmosfera di grande fiducia che Paolo nutre verso i propri lettori che gli hanno manifestato grande stima e affetto nel periodo in cui è rimasto tra loro. La lettera, probabilmente, parte da Corinto, nell’inverno del 56/57, forse a poca distanza dalla stesura della “Lettera ai romani”. L’occasione dello scritto viene dalla necessità che s’impone a Paolo di difendersi da accuse pesanti, e minacciato da alcuni giudeo-cristiani che ribadiscono la necessità della legge mosaica e della circoncisione anche per i cristiani che vengono dal paganesimo. Siamo alle esortazioni pratiche nella lettera.

– L’idea iniziale è quella della libertà: essa non è pretesto per sentirsi liberi anche dalla condotta morale, ma la garanzia perché attraverso la carità ci si metta del servizio gli uni degli altri (v 13).

– Il nuovo sviluppo dell’esortazione morale è il testo che leggiamo oggi. Non si pone più nella riflessione del concetto di libertà cristiana e quindi nell’antitesi tra libertà e legge ma nell’antitesi tra Spirito e carne.

Anche qui, come nella prima lettura, viene utilizzata la parola “camminare” che significa: “comportarsi bene con chi ci cammina a fianco, avere una condotta coerente”. Il credente, infatti, esiste perché non ha alcuna intenzione di seguire “i desideri della carne”. Questo è possibile perché non siamo ancora divinizzati dallo Spirito ma solo guidati.

Vengono distinte nell’elenco 4 categorie di colpe contro: 1) la purezza del corpo, 2) la religione, 3) la carità, 4) la temperanza. Per spiegare, la fornicazione comprende anche il concubinato, l’impurità comprende anche i peccati contro natura, la dissolutezza è la lussuria sfrenata, la gelosia si differenzia dall’ invidia in quanto la prima non vuole altri a condividere i propri beni, mentre l’altra vuole vedere il prossimo, privato dei beni che possiede.

I frutti dello Spirito sono la manifestazione della vita rinnovata, impegno quotidiano di ogni credente, ma anche effetto gratuito della presenza dello Spirito. L’amore è la carità fraterna, la pace è fondata sul dono portato nella comunità da Gesù, la magnanimità è pazienza e prontezza al perdono.

Secondo un uso spesso utilizzato nelle sue lettere, Paolo elenca dei “cataloghi di vizi” (vedi nelle lettere ai Romani, 1Corinti, Efesini, Colossesi). Qui sono ricordate circa 15 azioni perverse che allontanano dal Regno di Dio. In contrapposizione al “desiderio della carne”, lo Spirito produce frutti di amore. In questo caso Paolo ne elenca 9: essi rappresentano lo stile nuovo e la libertà del cristiano.

I credenti sanno di essere crocifissi con Cristo, perciò non è uno stare pacifici a guardare il mondo, ma accettare come Gesù la lotta contro il male e contro la morte.

Tratto da Qumran2.net