25/06/2017

TERZA DOMENICA DOPO PENTECOSTE

 Riflessione sui testi: di don Angelo Casati

Gn 2,4b-17 -Sal 103 -Rm 5,12-17 -Gv 3,16-21

 

Le parole che oggi abbiamo ascoltate Il nostro testo le presenta come dette da Gesù a Nicodemo. Ma forse il colloquio notturno si era concluso. E queste forse sono le parole  a commento e a dilatazione delle parole rivolte a Nicodemo nella notte. Parole che hanno un interlocutore plurale, la seconda persona plurale, e quindi rivolte a noi.

Gesù aveva invitato Nicodemo a sconfinare, come fa il vento, lui, uomo della legge, fariseo e uno di capi dei Giudei. Lo aveva chiamato a rinascere, a rinascere a qualcosa di più importante e di più vivo delle prescrizioni della legge. Una religione corre sempre questo rischio. Per la fede cristiana è poi un rischio mortale, l’appiattimento sulle norme. Dico mortale perché è come se le venisse rubato il cuore, il vento. E quindi è la morte, una religione morta.

Ebbene le parole a commento di quell’intrigante colloquio notturno custodiscono il cuore, il cuore della nostra fede, se volete il cuore di Dio. Non rubate alla religione il cuore.

Siamo fuori dalle categorie del giudizio, della condanna, o della placazione di Dio – pensate che cosa orribile! – attraverso il sangue di qualcuno. Riascoltiamole, sono il cuore dell’evangelo, sono il vangelo, la buona notizia: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede,  in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma per-ché il mondo sia salvato per mezzo di lui.  ”.

 

“Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il suo figlio, l’unico” dovremmo scriverlo sulle pareti delle chiese, e forse ancor più sulle pareti dell’anima. L’amore e l’ampiezza: “ha amato…il mondo”.

C’è un pericolo per la chiesa d’oggi – e ce ne mette in guardia papa Francesco, nella Evangelii gaudium – è quello di una fede che insiste su aspetti secondari e non  si concentra  “sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. Succede – dice – quando si parla più della legge che della grazia, più della chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della parola di Dio”.

 

Se si impallidisce questo messaggio, “se tale invito non risplende con forza e attrattiva” dice il Papa “l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il Vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali, che procedono da determinate opzioni ideologiche. Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di non avere più “il profumo del Vangelo”(n.38). Sono immagini potenti: diventare un castello di carte, perdere la freschezza e non aver più il profumo del vangelo.

Un Dio che ama e dà il suo figlio. Con il rischio che corre sulla terra un figlio che gli assomiglia, che mette casa fra noi e ama con la stessa passione di suo padre, e quindi rischiando la vita per mano di coloro che non amano il mondo, ma amano i loro interessi e le loro posizioni di potere.

Ha tanto amato “il mondo”. Forse Nicodemo arrivava a riconoscere che Dio aveva amato il suo popolo. Ma qui l’evangelista dice: “Il mondo”. Dio ha amato il mondo. Pensate: ciascuno, tutti, tutto…il mondo!. Ci sei anche tu, ci siamo noi, ci sono tutti, questa terra, quella di ieri, quella di oggi e di domani. Il mondo!

E perdonate allora se io rileggo in questa luce il brano del libro della Genesi che racconta le origini.  Siamo a uno dei due racconti della creazione. Le orme di un Dio che ama vengono da lontano. Vengono dai giorni delle origini le tracce, lasciate sulla terra da Dio e dal suo Figlio, dall’amore di Dio e del suo Figlio. Sono scritte nella carne dell’uomo e della donna, sono scritte nelle vene della terra. La Bibbia si avvale per raccontarle di racconti mitici dei popoli dell’oriente, delle loro immagini. Certo sono immagini, ma anche la poesia si avvale di immagini, Per dire cose di un intensità incredibile.

Mi ha molto colpito e ancora una volta mi commuove l’immagine di un Dio che si prende cura e affida alle cure. Perché amare, non è uno stropiccio di parole, è prendersi cura. Che nel racconto si traduce in verbi, sette verbi: plasmò, soffiò, piantò, collocò, fece germogliare, prese, pose. Settenario dei verbi, settenario della perfezione della cura di Dio.

Mi commuove un Dio che soffia il suo alito di vita e la polvere del suolo diventa un essere vivente.

Quando Dio, nell’in principio di ognuno di noi soffia il suo alito di vita, ha inizio un unicum, qualcosa di nuovo, di irripetibile. Ha inizio, scrive Hannah Arend, una delle più grandi pensatrici del secolo scorso, “la capacità di fare di te un miracolo…e ciò è possibile perché ogni uomo è unico e, con la nascita di ciascuno, viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità. Di questo qualcuno che è unico si può fondatamente dire che prima di lui non c’era nessuno”.  Prima di te non c’era nessuno. Inizia la tua libertà, la capacità di fare di te un miracolo.

Ma ecco un accenno, solo un accenno ad altri due verbi che il racconto riferisce a Dio: “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse”.

Il modo di amare e di prendersi cura di Dio diventa, è bellissimo, il nostro modo di amare  e di prenderci cura. Il giardino che ci viene affidato, che viene affidato alle nostre cure. non è come a volte si è pensato un giardino divino, è la terra, la nostra terra, la nostra storia affidata al nostro coltivare e al nostro custodire. Ne portiamo una responsabilità. Compito che ci viene affidato ogni mattina, ogni mattina al nostro risveglio: coltiva e custodisci. Metti in atto tutta la tua intelligenza, il tuo amore, la tua passione  per questa terra, per questa storia, per questo pezzo di storia e di umanità che tocca a te, metti  campo tutta la tua passione.

E ricorda il divieto, espresso nell’ordine di  non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, che dice no alla pretesa di essere onnipotenti.  Divieto che non ci chiede certo di rinunciare alla nostra intelligenza. E’ un altolà a sentirci dio, padroni e arroganti. Perché questo sarebbe l’anticamera della morte, lo sfascio della terra, che qualche volta ci sembra con tristezza di intravvedere. La terra, la vita non ti è stata data per violentarla o per depredarla. Ti è stata affidata per coltivarla e custodirla. Tu hai vocazione di contadino e di custode.

 

Per la riflessione

 

Concretizzando il coltivare e il custodire