22/08/2018

COMMENTO ALLE LETTURE -XII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Anno B Rito Ambrosiano

Don Raffaello Ciccone Ger 25,1-33      Rm 11,25-32

 Don Valter Magni    Mt 10,5b-15

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Don Valter Magni    Mt 10,5b-15

Dopo Elia ecco Geremia che profetizza al popolo d’Israele la deportazione a Babilonia, per non aver ascoltato la Parola del Signore. Ma anche il vangelo odierno diventa molto esplicito e chiaro, là dove i discepoli del Signore dovessero trovare qualche resistenza: “Se qualcuno non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole scuotete la polvere dai vostri piedi”. Insomma, non c’è annuncio che non comporti condizioni e conseguenze.

“Rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute”

Gesù sta dando delle istruzioni molto precise ai Suoi: “non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani”. Doveva aveva una Sua strategia, forse una tempistica nell’annuncio: “rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele”. Un dato ci sta davanti: le comunità cristiane in Occidente invecchiano. Spesso arrancano quanto a evangelizzazione e faticano decisamente quanto a testimonianza. Anche i loro pastori, depositari di principio per tradizione clericale del primato nell’annuncio del Vangelo, danno segni di stanchezza e sfiduciati allargano le braccia. È recente la pubblicazione di un libro di un prete della Diocesi di Munster (Germania) dal titolo provocatorio: Così non posso più fare il parroco – vi racconto perché (Th. Frings, Ancora 2018): “Come prete ho avuto una vita gratificante e vorrei continuare a essere prete. Ma come parroco la vivo sempre più come servizio reso a tradizioni e a disposizioni di una chiesa che a tutti i livelli lavora più per il suo passato che per il suo futuro”. Gesù non Si arrenderebbe e con insistenza ci ripeterebbe: “rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele”. Il rischio di mollare la presa, di fuggire sognando altri lidi pastorali, situazioni di annuncio più appaganti è sempre in agguato. Non solo per i pastori. Il coraggio di restare dentro questo gregge; nei confini di questa chiesa, dove si finisce per essere perdenti e peccatori, rinnovando la nostra decisione nei confronti del Vangelo di Gesù, è una opportunità offerta a tutti. Anche Gesù non ha mai perso la speranza!

“Strada facendo…”

A nessuno è chiesto tuttavia di insistere in un annuncio che non dà soddisfazione. Anche i 72 discepoli, che Gesù aveva inviato a due a due, ritornarono dalla missione pieni di gioia (Lc 10,17). La questione sta tutta in una giusta strategia, Dice ancora Gesù: “strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino”. Capite che qui non si tratta anzitutto di pulpiti o chiese; di gruppi e di aggregazioni che tengono duro e ci credono ancora. È la strada, infatti, lo spazio dell’annuncio. Con tutti i luoghi che incontri mentre la stai percorrendo. Gesù non ha mai detto a riguardo dell’evangelizzazione: celebrate una bella liturgia, fate un corso di lectio divina o di formazione all’ascolto, al celebrare bene, ad un maggiore senso di responsabilità! Ha detto invece: “strada facendo”; elencando anche i luoghi nei quali è bene entrare, sapendo bene cosa dire: entrate nelle città, nei villaggi; entrate nelle case. “Ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c’è uno Spirito che soffia in tutti i luoghi. C’è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n’è altra che egli lascia nella moltitudine, che non ritira dal mondo. È gente che fa un lavoro ordinario, che ha una famiglia ordinaria o che vive un’ordinaria vita da celibe (…). Noi altri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi, è per noi il luogo della nostra santità. Noi crediamo che niente di necessario ci manca. Perché se questo necessario ci mancasse Dio ce lo avrebbe già dato” (Madeleine Delbrel, Noi delle strade, 1938).

“Predicate (…). Guarite gli infermi, risuscitate i morti”

Anche le azioni che i discepoli sono invitati a fare in occasione dell’annuncio lungo le strade della casa d’Israele non sono certo frutto di ragionamenti complicati. Il primato resta anzitutto alla Parola, una parola chiara: “Predicate dicendo che il regno dei cieli è vicino”. Una parola essenziale, che annuncia che il Regno di Dio è vicino. Che con l’avvento di Gesù già sta per compiersi: “il regno è già in mezzo a voi” (Lc 17,21). Un’evangelizzazione che capta al volo le attese della gente, portata a invocare anzitutto una salute impossibile e pace inesistente: “guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni”. Discernere anche nell’intensa domanda di salute, i sintomi dei mali che più intristiscono la nostra gente: il timore di un tumore in agguato, il rancore provocato da solitudini complicate, le infinite forme della depressione che prende anche tra le persone che più amiamo e stimiamo. E poi, come risuscitare i morti? Solo l’amore ci riesce, come anche Gesù ha fatto con Lazzaro: “guarda come l’amava” (Gv 11,35)!

Quante volte ero già morto dentro e mi sono arreso, sentendomi abbandonato da tutti! Volevo farla finita ed ero giunto persino a ripudiare Dio. Poi – questo è il miracolo dell’amore che rianima i morti – qualcuno semplicemente mi ha detto, facendosi vicino: e tu come stai? Rompendo un silenzio assordante, una solitudine insopportabile. È sempre la stessa fede “che opera attraverso l’amore” (Gal 5,6) che ancora soccorre chi spera l’impossibile, percorrendo le strade del mondo!

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DON RAFFAELLO  CICCONE –  Ger 25,1-33      Rm 11,25-32

Lettura del profeta Geremia 25,1-13

Geremia è uno dei profeti più grandi d’Israele e, innamorato della bellezza e della bontà del Signore, tenta di riportare alla fedeltà il suo popolo, garantendo la pace. Ma la storia travolge uomini, regni e persone e la parola di Geremia cade nel vuoto. Anzi viene considerato un disfattista, un annunciatore di sventure e rischia molte volte la vita. La storia è raccontata da Geremia stesso nel suo libro autobiografico.

Geremia, il profeta, è un sacerdote del villaggio di Anatoth nel territorio di Beniamino (1,1), vissuto durante il regno degli ultimi re di Giuda: Giosia (640 a.C.-609 a.C.), Ioacaz (609), Joiakim (609-598 a.C.), Ioiachin (598-597), e Sedechia (597 a.C.-586).

Il contesto della profezia di Geremia è la lunga lotta dei Giudei contro i culti idolatri delle divinità dei paesi circostanti, provenienti da Tiro e da altre città della costa fenicia, profondamente radicati fin dal tempo di Manasseh (696-642). Giosia è un grande re e fa sperare in una conversione di cuore di tutto il popolo, poiché cerca di ristabilire il culto legittimo ad un unico Dio, nell’ambito delle sue riforme (2 Re 22,23). La riforma inizia nel 628 a.C. (2 Cr. 34,3) e viene ad essa dato un rinnovato impeto con la riscoperta del Libro della Legge nel 621 a.C. (2 Re 22,8).

La vocazione di Geremia avviene nel 626 a.C. (1,2). Uomo solitario a causa del suo messaggio impopolare (15,17) che deve portare, desidera sposarsi con Giuditta, ma Dio stesso gli proibisce di sposarsi (16,2). Si trova anche in contrapposizione con le autorità del paese e di ogni ceto sociale (26,8). Per questo, la sua vita stessa corre seri pericoli (11,18-23; 18,18; 26,8; 36,19; 38,6). Il suo messaggio tocca temi scottanti e dolenti della vita nazionale. Soprattutto il re Sedechia lo perseguita perché viene considerato un disfattista, che mina il morale della nazione. Geremia annuncia la prossima invasione dei babilonesi (37,3.17), contro i quali non ci si può opporre, ma bisogna arrendersi e pagare a loro le tasse.

Il testo di oggi fa riferimento al 605 a.C. e la minaccia è l’invasione di popoli dal Nord, talvolta indicata genericamente, più spesso identificata chiaramente con i babilonesi, guidati da Nabucodonosor. Il regno di Giuda è vinto per mano del re conquistatore nel 597 a.C. e porta in esilio a Babilonia la maggior parte degli intellettuali e degli attigiani della Giudea. Ma poiché i rimasti in Israele hanno intentato un nuova ribellione, nel 586 a.C, Nabucodonosor ritorna e, questa volta, la distruzione di Gerusalemme è totale: distrutto e bruciato il tempio, spodestata la dinastia davidica, deportati tutti gli israeliti, salvo pochi poveri contadini e pastori della zona montagnosa. Inizia così la cosiddetta “cattività babilonese”. Geremia è risparmiato e lasciato vivere tra le rovine di Gerusalemme, dove continua a predicare. Poi, catturato dai suoi denigratori e portato in Egitto (dopo l’anno 586 a.C.), vi muore, secondo un’antica tradizione cristiana, lapidato dai suoi connazionali, esasperati dai suoi rimproveri.

Il testo di oggi conclude, tuttavia, con uno spiraglio di speranza, avendo il profeta predetto che, dopo 70 anni, anche i babilonesi subiranno, a loro volta, la distruzione. Il numero 70 è un numero simbolico.

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 11,25-32

L’infedeltà e il rifiuto d’Israele sono parziali mentre la fedeltà e la Parola di Dio sono fedeli sempre. Abbiamo già incontrato questi interrogativi e questa sofferenza nel brano letto domenica scorsa nella lettera ai Romani (11,1-15). E infatti questo testo ne è il seguito. Ci viene posto il significato del “mistero d’Israele” (v 25). La certezza di una soluzione positiva non avviene per una garanzia razionale e non ci sono prove che garantiscano questa soluzione.

Ma il messaggio nasce dalla fiducia in Dio come per una profezia. Essa garantisce, attraverso la Scrittura, che Dio mantiene la sua parola. Viene posta, allora, la lettura e la interpretazione teologica della storia. L’apostolo formula una previsione: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto, fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato.

Israele è “nemico del vangelo”, ma solo temporaneamente, poiché non ha riconosciuto Gesù.

Il versetto centrale regge tutto l’impianto di speranza, anche se si rimanda alla conclusione della storia: “Ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! (vv28-29)”. Quanto alla scelta di Dio, che è stata la scelta gratuita del Padre, Dio non dimentica le sue promesse”. La colpa di Israele è, soprattutto, l’aver voluto raggiungere, con una pratica formale della Legge e con le proprie forze, quella giustizia che può ottenersi solo con la fede (10,1-21).

Paolo, così, è convinto che Dio non ha rigettato il suo popolo. Il suo stesso ministero lo conferma. Egli infatti percepisce un legame misterioso tra la propria missione ai Gentili e la salvezza del suo popolo. Dovunque ha predicato, il rifiuto di Israele è stato causa di apertura della evangelizzazione ai pagani; e tale rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo. Ma Paolo va oltre. Se tali esiti ha dato la loro riprovazione, quali potranno essere mai i frutti positivi?

Davanti a Dio non valgono privilegi razziali, ma vale solo il riconoscersi racchiusi nella disobbedienza. Solo così si rivela verso tutti la misericordia del Signore.